Inflazione nella Germania di Weimar: una lezione attualissima
di LUDWIG VON MISES - 7 Marzo.... 1946 !
L’inflazione della moneta cartacea e l’espansione del credito non piombano mai su un popolo come un atto divino.
Sono sempre il risultato di una politica intenzionale. I governi e i
partiti al potere ricorrono all’inflazione perché la considerano come
una benedizione o almeno un male minore rispetto agli effetti della
riduzione della spesa pubblica o della scelta di diversi metodi di
finanziamento. Ciò si applica sia alla pace che alla guerra.
L’inflazione come tale non è di alcun aiuto nel vincere battaglie. Non
produce armi ed altre attrezzature. È soltanto uno dei metodi
disponibili per finanziare le spese enormi causate dalla guerra. Gli
altri metodi sono tassare e prendere prestiti dal pubblico (e non dalle
banche commerciali). Se un governo sceglie l’inflazione, non deve
giustificarsi dicendo che era l’unico sistema rimasto.
Naturalmente, il termine inflazione è caduto in disgrazia.
Tutti i governi e tutti i partiti politici annunciano enfaticamente che
la loro principale preoccupazione è di combattere questa cosa terribile
chiamata inflazione. In realtà non combattono l’inflazione, ma soltanto
i suoi sintomi e le sue inevitabili conseguenze, vale a dire il rialzo
dei prezzi. E questa lotta è condannata a fallire precisamente perché è
soltanto un occuparsi dei sintomi. Niente è fatto per eliminare la causa
originaria, ovvero l’aumento nella quantità di moneta e l’espansione
del credito.
La verità è che la tendenza a inflazionare non è mai stata tanto forte come lo è oggi.
È soltanto che i fautori dell’espansione del credito e dell’inflazione
hanno fatto ricorso ad una nuova terminologia. Chiamano questa cosa
espansionismo, politica dei soldi facili, squilibrio di bilancio, o
finanza funzionale. La carta britannica che inaugurò nel 1943 l’azione
che risultò poi nel 1944 nell’accordo di Bretton Woods dichiara
esplicitamente che lo scopo della nuova istituzione internazionale è di
determinare “una pressione espansionista sul commercio mondiale.”
Prevede che questa politica espansionista compia “il miracolo … di
trasformare una pietra in pane.”
L’idea che l’espansione monetaria e del credito faccia bene
al commercio, crei “la piena occupazione” e porti una generale
prosperità era l’essenza delle idee del mercantilismo.
Gli
errori impliciti sono stati esposti completamente da economisti che la
scuola storica prussiana ed i loro moderni seguaci, i keynesiani ed i
fautori americani dello squilibrio di bilancio, denigrano come
ortodossi. Una nuova analisi sistematica e una confutazione completa dei
difetti della dottrina espansionista non sono di certo necessarie. Chi
fosse interessato in un tale esame critico faccia riferimento agli
scritti del professor B.M. Anderson, dell’ultimo professor Edwin
Kemmerer [1] e di molti altri brillanti economisti americani.
L’obiettivo di questo articolo è soltanto di indagare un aspetto spesso
trascurato dei problemi in questione. Appare conveniente esemplificare
la questione con il caso dell’inflazione tedesca del periodo tra il 1914
e il 1923, la classica esperienza espansionista del nostro secolo.
Un marco è sempre un marco.
Fra i becchini della
prosperità e della valuta del popolo tedesco, Friedrich Bendixen occupa
un posto eminente. Fu un direttore di banca e l’autore di molti libri ed
articoli che si occupavano di questioni monetarie. Il suo prestigio e
la sua influenza sul corso della politica finanziaria del Reich erano
enormi. Quando nella Prima Guerra Mondiale il potere d’acquisto del
marco diminuì e simultaneamente i tassi del cambio estero salirono,
Bendixen strombazzò che questo era un evento piuttosto fortunato.
Perché, egli disse, permetteva ai tedeschi di ottenere profitto dalla
vendita dei loro titoli esteri.
Consideriamo un esempio.
Un tedesco possedeva alla
vigilia della guerra un titolo olandese trattato sulla Borsa di
Amsterdam a 100 fiorini olandesi, a quel tempo generalmente
l’equivalente di 240 marchi. Il prezzo dell’azione cadeva ed il tedesco
la vendeva a 90 fiorini olandesi. In oro ciò significava una perdita del
10 per cento. Ma nel frattempo il prezzo del fiorino olandese a Berlino
era aumentato da 2,40 a 3 marchi; 90 fiorini olandesi ora
rappresentavano 270 marchi. Il capitalista tedesco aveva ottenuto un
guadagno apparente di 30 marchi o del 12,5 per cento. Tuttavia, il
tedesco medio ed il suo portavoce Bendixen non erano abbastanza sagaci
da vedere le cose nella giusta luce.
Per loro un marco era ancora un marco
Sorridendo
intascavano un presunto guadagno. Lo stesso fenomeno si presentò in
ogni ramo dei rapporti economici internazionali. I campioni
dell’espansionismo assegnano ai tassi del cambio estero in rialzo il
potere di stimolare le esportazioni. Fu questa idea a spingere molti
paesi europei nel periodo fra le due guerre a svalutare le proprie
valute nazionali.
Una tale svalutazione istantanea fa aumentare i tassi del cambio estero.
Ma i prezzi dei beni e i salari interni rimangono per qualche tempo
alle spalle dell’aumento nei tassi di cambio. Nell’intervallo, prima che
la struttura dei prezzi sul mercato interno si sia adeguata alle nuove
condizioni monetarie, alcuni progetti di esportazione, che non erano
redditizi prima, sembrano apparentemente vantaggiosi. L’esportatore
ottiene un apparente profitto – in valuta nazionale – anche se può
vendere ad un prezzo più basso in valuta estera. Ma ciò che succede
realmente è che dà via i prodotti interni ad un prezzo che gli permette
di comprare soltanto una minore quantità di prodotti esteri. È vero, la
nazione la cui valuta è stata svalutata esporta di più durante questo
intervallo, ma ottiene nello scambio soltanto di meno o, come minimo,
non più di quanto otteneva in precedenza per una minore quantità di beni
esportati. Questo è ciò che gli economisti hanno in mente quando
parlano di guadagni “apparenti.” Questi guadagni sono il risultato di un
falso calcolo e di un auto-inganno.
Gli enormi profitti inflazionistici del commercio
È stato asserito ripetutamente che il commercio tedesco fiorì durante gli anni della grande inflazione.
Infatti, i rapporti annuali delle grandi società e delle grandi banche
tedesche mostravano grassi profitti, e gli azionisti ricevevano alti
dividendi (le banche tedesche non erano soltanto banche, ma allo stesso
tempo società finanziarie che possedevano una parte controllante dei
titoli ordinari di molte società industriali). Tuttavia, questi guadagni
erano spesso soltanto apparenti, un mero prodotto del fatto che gli
imprenditori facevano il calcolo economico impiegando il marco come
comune denominatore. Una volta tradotti in una più stabile valuta
estera, per esempio in dollari, si rivelavano frequentemente come
perdite. Non aveva importanza per il commercio tedesco se i prezzi in
oro ed in dollari stessero aumentando o scendendo. I prezzi in marchi
aumentavano qualunque fosse il movimento dei prezzi sul mercato
mondiale. La vendita di prodotti e inventari catturava grandi profitti
cartacei perché i prezzi in marchi salivano senza sosta.
Una seconda fonte di profitti cartacei era fornita da un’insufficiente cancellazione del deprezzamento.
L’obiettivo di mettere una parte dei guadagni annuali in un fondo di
deprezzamento è di fornire i mezzi per la sostituzione delle
attrezzature industriali consumate nel corso della produzione.
L’omissione di mantenere tali fondi fa sembrare i profitti più grandi di
quanto realmente sono. Se tali profitti in eccedenza apparenti si
trattano come se fossero profitti reali, il risultato è il consumo del
capitale. Poiché le aziende tedesche furono lente nello scartare la
vecchia abitudine di ammortizzare annualmente una percentuale fissa dei
costi originali dei macchinari, questo ridusse virtualmente la quantità
di capitale investita.
Con il procedere veloce dell’inflazione sempre più gli imprenditori cominciarono a comprendere che i loro metodi erano suicidi.
Diedero inizio a ciò che è stato chiamato “il volo nei valori reali”
(Flucht in die Sachwerte). Cominciarono a reinvestire i profitti
apparenti nei loro impianti. Non aveva importanza per loro che questi
investimenti fossero ragionevoli oppure no. La loro unica preoccupazione
era di allontanarsi dal marco a qualsiasi costo. Gli eventi successivi
provarono che una grande parte degli investimenti fatti durante gli anni
dell’inflazione dalle banche tedesche e dalle aziende commerciali
indipendenti erano cattivi investimenti. Il commercio tedesco emerse
dalla prova del periodo dell’inflazione indebolito finanziariamente. Le
grandi banche tedesche erano già nel 1924 sull’orlo dell’insolvibilità.
Naturalmente, i tedeschi, immersi nelle fallacie monetarie di Bendixen e Knapp, [2] non erano informati di questo fatto.
Tantomeno furono i banchieri e gli investitori stranieri abbastanza
accorti da giudicare correttamente la difficile situazione delle grandi
banche e di molte grandi aziende tedesche. Negli anni 20 i prestiti
esteri al Reich, agli stati membri, ai comuni, alle banche ed alle
grandi aziende ammontavano a circa 20 miliardi di marchi. Inoltre, gli
stranieri investirono 5 miliardi di dollari direttamente nel commercio
tedesco. Questa enorme affluenza – contro la quale dovevano essere
considerati i pagamenti di riparazione di circa 10,8 miliardi di dollari
– nascose per alcuni anni la debolezza delle grandi banche. Quando la
depressione mise fine al prestito estero in Germania, il crollo delle
banche non poté più essere ritardato. Arrivò nel 1931 come il risultato
sia dell’inflazione che dell’ignoranza delle questioni economiche
fondamentali.
Una delle ragioni per le quali l’opinione pubblica ha
frainteso le conseguenze economiche dell’inflazione tedesca è stata
l’emersione di una classe di profittatori dall’inflazione.
I
profittatori furono quegli speculatori che capirono più rapidamente dei
dirigenti di banca il vero significato del boom inflazionistico. I tassi
di interesse caricati dalle banche, anche se alti in confronto alle
circostanze normali, erano ridicolmente bassi rispetto ai profitti di
borsa che uno speculatore poteva guadagnare in un mercato i cui i prezzi
salivano alle stelle a causa dell’inflazione. Qualunque azione avesse
comprato, lo speculatore catturava un profitto lordo che superava di
gran lunga l’interesse sul prestito che doveva pagare alla banca. Finché
l’inflazione continuava non c’era rischio per lui nell’imbarcarsi in
transazioni al rialzo con soldi presi in prestito.
La Germania rovinata finanziariamente dall’inflazione
L’inflazione favorì i debitori a spese dei creditori.
Arricchì un gruppo molto ristretto di astuti speculatori. Impoverì
l’immensa maggioranza della nazione.
Le perdite dei perdenti
sorpassavano di gran lunga la somma totale dei guadagni dei
profittatori. La ricchezza pro capite dei tedeschi si ridusse, a
dispetto del fatto che fossero riuscito a scaricare una parte delle loro
perdite sulle spalle dei capitalisti stranieri, particolarmente degli
americani e degli svizzeri.
L’eccesso delle perdite da inflazione rispetto ai guadagni da inflazione proveniva da tre fonti differenti:
La nazione aveva consumato più di quanto aveva prodotto: aveva
vissuto sul proprio capitale. La maggioranza dei profitti apparenti
venne mangiata dagli speculatori e dagli imprenditori stessi o dal
governo che li raccolse sotto l’ingannevole etichetta dei fondi di
imposta sulle imprese e sul reddito che erano in effetti sottratti dal
capitale investito. Lo spreco dell’amministrazione comunale fu così
scellerato che neppure Schacht [3] non poté evitare di criticarlo. Molti
sindacati riuscirono ad aumentare i salari nominali oltre l’aumento dei
prezzi dei beni. Incassarono il risultante aumento nei tassi salariali
effettivi come “guadagno sociale.” In effetti, questi operai
comparteciparono nel consumo del capitale. Contribuirono così al
successivo crollo della produttività del lavoro e quindi dei tassi
salariali del mercato.
La Germania scaricò esportazioni a poco prezzo sul mercato mondiale.
Accadde più volte che i manufatti tedeschi, prodotti con materie prime
importate, vennero esportati a prezzi che – calcolati in dollari – non
coprivano neppure il prezzo delle materie prime contenute. Tuttavia, gli
esportatori tedeschi erano convinti di aver fatto un buon affare.
Gran parte degli investimenti effettuati negli anni critici erano stati pessimi investimenti. . . .
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Ludwig von Mises (1881–1973) was the foremost Austrian economist of
the twentieth century, an adviser to FEE, and the author of Human
Action.
This is the major part of an article originally published in the
Commercial and Financial Chronicle, March 7, 1946
Link all'articolo originale
https://fee.org/articles/business-under-german-inflation/
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NOTE
1. Vedi Benjamin M. Anderson, Economics and the Public Welfare: A
Financial and Economic History of the United States, 1914–1946
(Princeton: D. Van Nostrand Company, Inc., 1949) e Edwin W.
Kemmerer, The ABC of Inflation (New York: McGraw-Hill, 1942).
2 Georg Friedrich Knapp, autore di The State Theory of Money (1924 [1905]).
3. Hjalmar Orazio Greeley Schacht, finanziere tedesco che tenne un certo
numero di posizioni nel governo tedesco, tra il 1923 e il 1943,
compresa la presidenza della Reichsbank ed il ministero dell’economia.
Traduzione di Paxtibi