Per capire quanta idiozia ci sia nella politica estera dei paesi occidentali, basta leggere la risposta di Tiziano Terzani, scritta ad Oriana Fallaci a seguito degli attentati dell'11 Settembre 2001.
Se i politici europei
invece che blaterare qualche volta studiassero, o almeno leggessero, avvenimenti come quelli di Parigi non esisterebbero.
Lettera da Firenze a New York
Il Sultano e San Francesco
Non possiamo rinunciare alla speranza
Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui
anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi
contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il
panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna
in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme
facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli
argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella
quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da
due mondi diversi»: io dalla Cina dell' immediato dopo-Mao in cui
andavo a vivere, tu dall' America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in
nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per
coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare,
che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo
stesso pianeta, ho l' impressione di stare in un mondo assolutamente
diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per
non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono
rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due
Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di
sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana -
la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi ha
colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da
dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che,
dinanzi all' indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente
non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta,
creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per
Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere
prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere
Gli ultimi giorni dell'umanità, un' opera che sembra essere ancora di
un' inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un
tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua
brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole,
influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un
momento di straordinaria importanza. L' orrore indicibile è appena
cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una
grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme
responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue
sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad
aizzare la bestia dell' odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare
quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e
permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l' uccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che
conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile
cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell' anima di Gandhi.
Ed aggiungeva: «Finché l' uomo non si metterà di sua volontà all' ultimo
posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna
salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata
contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici,
credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia
accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per
rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che
la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che
mondo è mondo non c' è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte
le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è
nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo
di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione.
Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro
diverso da quello che ci illudevamo d' aver davanti prima dell' 11
settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla,
tanto meno all' inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o
semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il
moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono
sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la
guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella
atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora
dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano,
saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza
regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro
attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile
violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla
nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'
altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la
misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il
mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari
«intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza
altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra
di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice -
Stati Uniti in testa - d' impegnarsi solennemente con tutta l' umanità a
non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la
disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo
questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un' arma
importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l' orrore
indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In
questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non
sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in
Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden:
ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L' arte di non essere
governati: l' etica politica da Socrate a Mozart). L' autore è Ekkehart
Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'
Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la
politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della
vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in
alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da
sempre a ricordare all' uomo la necessità di rompere il circolo vizioso
della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello,
ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato
Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all' esilio
dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini,
spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a
Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'
uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti
di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e
le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere
sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non
raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del
mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli
spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri
giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il
nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto
invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri
Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di
«Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po'
di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull' isola di
Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze
vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e
tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire
per la bandiera e per l' Imperatore. I kamikaze mi interessano perché
vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell' innaturale atto
che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i
figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di
vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di
violenza di cui l' ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un
episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire.
Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si
risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li
rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra
un fatto ed un altro c' è raramente una correlazione diretta e precisa.
Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di
cause che producono, assieme a quell' evento, altre migliaia di effetti,
che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L' attacco
alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e
complessi fatti antecedenti. Certo non è l' atto di «una guerra di
religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre
anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è
neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come
vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio
accademico dell' Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di
anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una
interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell' 11
settembre non hanno attaccato l' America: hanno attaccato la politica
estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del
15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l' ultimo, Blowback,
contraccolpo, uscito l' anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha
del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al
fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'
Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete
imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una
analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della
disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l' elenco di tutti gli
imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli
assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti
nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente
coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo»
dell' attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con
tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di
Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'
installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la
conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in
particolare l' Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell' Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere
tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un
implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento
anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende
gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l' analisi di
Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni
degli americani e nostri nel Medio Oriente c' è, a parte la questione
israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far
restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve
petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L' occasione per
uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica
dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare
da una ventina d' anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo così d' essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno
repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi
«contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi,
e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio
ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l' Alaska che proprio
un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal
presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i
petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu
avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'
Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo
paese è legato al fatto d' essere il passaggio obbligato di qualsiasi
conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio
dell' Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora
tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan,
l' India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover
passare dall' Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora
nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a
Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa
faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con
la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col
Turkmenistan a costruire quell' oleodotto attraverso l' Afghanistan. È
dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la
libertà e la democrazia, l' imminente attacco contro l' Afghanistan
nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno
determinanti. È per questo che nell' America stessa alcuni
intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli
interessi dell' industria petrolifera con quelli dell' industria bellica
- combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al
potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le
future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all' interno
del paese, in ragione dell' emergenza anti-terrorismo, i margini di
quelle straordinarie libertà che rendono l' America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito
dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l' aggettivo
«codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi,
così come la censura di certi programmi e l' allontanamento da alcuni
giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato
queste preoccupazioni. L' aver diviso il mondo in maniera - mi pare -
«talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi»,
crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di
cui l' America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo,
quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici,
ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero
perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed
agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è
una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra
cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere
togliere l' aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d' aver
risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio
il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte
altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di
guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche
qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell'
establishment mediatico, c' è stata una disperante corsa alla
ortodossia. È come se l' America ci mettesse già paura. Capita così di
sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche
carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di
quell' America che per due volte ci ha salvato. Ma non c' era anche lui
nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici -
me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco
ancor più l' angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere
come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi
terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi
divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah.
No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo
poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo
il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma
questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di
andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di
comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward
Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in
un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana
prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche
nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana,
presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del
terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come
incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate
nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli
italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno
migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di
religione, anche che cosa è l' Islam? Che a lezione di letteratura
leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe
meglio che ci fossero quelli che studiano l' arabo, oltre ai tanti che
già studiano l' inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero
degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul
mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno
attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e
letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e
mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i
santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno!
Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate,
ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali
combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò
una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a
malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e
tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'
assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei
crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa
battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le
linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del
Sultano. Peccato che non c' era ancora la Cnn - era il 1219 - perché
sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell' incontro.
Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che
probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che
San Francesco tornasse, incolume, all' accampamento dei crociati. Mi
diverte pensare che l' uno disse all' altro le sue ragioni, che San
Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che
alla fine si trovarono d' accordo sul messaggio che il poverello di
Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi
diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come
predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon
umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi?
Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre
Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo
all' orrore dell' olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome
da fine del mondo, l' alternativa fra essere e non essere, hanno fatto
diventare l' uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare
debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi
dica, che cosa spinge l' uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein
nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l'
evoluzione psichica dell' uomo in modo che egli diventi più capace di
resistere alla psicosi dell' odio e della distruzione?» Freud si prese
due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c' era da sperare:
l' influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il
giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto
mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la
morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li
risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto
della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua
casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse
all' umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi
che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi,
Oriana, non c' è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi
calci). Per proteggersi non c' è bisogno d' ammazzare. Ed anche in
questo possono esserci delle giuste eccezioni. M' è sempre piaciuta nei
Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino
lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide.
Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i
poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante,
sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'
acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di
morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della
libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il
rispetto di certe regole che sono il frutto dell' incivilimento, occorre
il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi
nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli
giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono
portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli
altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano
schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le
prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide.
Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall' India
agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la
scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e
contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una
rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per
chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il
presidente americano della Union Carbide responsabile dell' esplosione
nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000
morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse
sì. L' immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella
del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana
nelle montagne dell' Afghanistan, ordina l' attacco alle Torri Gemelle; è
l' ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se
stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una
borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l'
uomo d' affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella
borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica
chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non
potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la
centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino?
E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente
la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie
secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre
scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più
conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono,
gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far
crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio
solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può
esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà
difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell' essere a fianco degli Stati
Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come
vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari
paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di
massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa
la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
«Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di
un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c' era
scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a
Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più
che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa
di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato
ad un po' più di moralità. La vastissima, composita alleanza che
Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e
riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo
perché ora tornano comodi, è solo l' ennesimo esempio di quel cinismo
politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e
scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per
avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il
terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le
Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più
reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese
che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte
Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle
mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.
L' interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro
principio. Per questo ora Washington riscopre l' utilità del Pakistan,
prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni
economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia
sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui
affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le
persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un
giorno la politica dovrà ricongiungersi con l' etica se vorremo vivere
in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a
Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora,
ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato,
tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell' Islam o degli immigrati che
ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città
bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era
bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non
perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini
si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi
ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s' è
«globalizzata», perché non ha resistito all' assalto di quella forza
che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel
giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare
a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una
tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che?
A tanti negozi di moda. Credimi, anch' io non mi ci ritrovo più. Per
questo sto, anch' io ritirato, in una sorta di baita nell' Himalaya
indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a
guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità,
eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e
impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra,
Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche
tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un
grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata,
finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un
accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte
le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo
d' erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti
saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se
quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.
Tiziano Terzani
7 Ottobre 2001
http://archiviostorico.corriere.it/2001/ottobre/08/Sultano_San_Francesco_co_0_0110082774.shtml
Nessun commento:
Posta un commento